Le barriere di Marzia

Le barriere di Marzia, da “Dimmi perchè parti” di Gianni Spartà

Copertina dimmi perchè parti gianni spartà

Lo chiamano ritiro sociale. E’ un’espressione ancora poco nota per definire i comportamenti di persone fragili colpite da grave disabilità, compensata da straordinario apprendimento. Queste sindromi sono molto diffuse e sarebbe disarmanti se, di tanto in tanto, non accadessero fatti imprevedibili. Leo era un bambino di cinque anni quando lo si scoprì affetto da una malattia genetica che gli bloccava la comunicazione, non il pensiero. Suo padre, scienziato ecclettico, ha inventato un linguaggio logico-simbolico per interagire con figlioletto e lo ha fatto studiando l’opera di Leonardo. Si tratta di un alfabeto semplice, universale, con il quale tutti possono esprimere infinite sensazioni consequenziali. Ma questa è una storia di calcoli matematici e geometrici, l’applicazione pratica di uno dei tanti insegnamenti del genio da Vinci e del suo Codice Atlantico, una specie di cassetta degli attrezzi lasciato in eredità all’uomo per esplorare i misteri della materia.

Giovanni detto Gianni, il papà di Marzia, non è scienziato, bensì maestro nell’arte di lavorare il cuoio. S’è fatto da sé: è nato e cresciuto a Castanea, borgo di villeggiatura nel parco dei Peloritani sopra Messina, e allo stesso traguardo del padre di Leo ci è arrivato in bicicletta. Con l’amore, più che con la scienza. Con la forza di volontà, più che con i libri. Sempre con l’intelligenza che della vita è la misteriosa forza motrice.

Marzia, 26 anni, è una creatura speciale. Anche lei bilancia l’impossibilità di parlare con la velocità insuperabile del suo pensiero. I suoni gutturali, le grida che gli sgorgano dal cuore, i gesti quasi robotici delle sue mani, delle sue braccia, segnalano una delusione, una gioia, un bisogno, una richiesta, a volte un capriccio. Come accade a una persona normodotata. E come una persona normodotata Marzia ha fatto il “Giro dei due mari”, dalla costa di Taormina a quella di Tindari; ha pedalato per 170 chilometri in tandem con suo papà; ha guidato una carovana di ciclisti che hanno condiviso la sua missione: abbattere le barriere fisiche e mentali, chiedere ai sindaci dei comuni attraversati di prendersi cura. Prendersi cura di lei? No, dell’intero universo della disabilità che racchiude tesori umani inutilizzati, ignorati, a volte ghettizzati.

Doveva essere una pedalata strapaesana, è stata una sfida seguita da televisioni, giornali e riviste specializzate. Doveva essere la gita solidale di un gruppo cicloturistico di Messina, la città di Vincenzo Nibali, da sempre amico Marzia, è stato l’inizio di un’avventura che è diventata kermesse mediatica. Si svolgerà ogni anno, in giugno. Il settore del no profit si è mobilitato. Gli sponsor, che erano scettici, hanno capito la rilevanza sociale dell’evento.

Anch’io ho partecipato a questa corsa del cuore perché la Sicilia è la mia terra, perché Marzia ce l’ho da sempre negli occhi e nell’anima, perché il coraggio solitario di suo padre mi ha coinvolto profondamente. Egli mi disse un giorno, mentre ci allenavamo sui colli San Rizzo, il più bel balcone sui due mari, lo Jonio da una parte con la costa che s’allunga verso Acireale, Acitrezza, Catania, il Tirreno dall’altra, con al centro un grappolo di isole vulcaniche sbucato dagli abissi milioni di anni fa: Lipari, Panarea, Stromboli, Salina: “Vedi Gianni, Marzia sa della mia passione per il ciclismo. Quando parto da casa, si intristisce. Si chiede perché lei no. Ho deciso che quella storia doveva finire. Sono andato da un fabbro, gli ho portato il disegno di una specie di rimorchio da agganciare alla mia bicicletta da corsa. Gli ho spiegato che non doveva essere un peso morto, ma un veicolo con due pedali e una sella. E lui ha forgiato il prototipo. Da quel giorno Marzia ha cominciato a pedalare appresso a me. A pedalare, dico. Non a farsi tirare”.

Ma che il gesto individuale di un papà mai rassegnato ad affidare la figlia alle cure di un istituto specializzato, che la sua testarda battaglia contro la disabilità facessero diventare Marzia “maglia rosa” del coraggio di vivere nessuno lo poteva prevedere. E’ bastato un tam-tam tra i cicloamatori della Sicilia, amplificato dal vincitore di un Giro d’Italia, di una Vuelta e di un Tour de France, e la mattina in cui da Castanea è cominciato il Giro dei due mari, 9 giugno del 2016, tutti hanno capito che il messaggio era stato captato.

Eravamo una quarantina, per lo più amici di Gianni che di cognome fa Raineri. Venti chilometri più avanti, scortati da vigili urbani motociclisti, eravamo il doppio, sotto il campanile del Duomo di Messina che contiene il più complesso orologio meccanico e astronomico del mondo, la truppa era triplicata. Attorno a noi, fotografi, giornalisti, telecamere, il vicensindaco con la fascia tricolore. Marzia, in sella alla sua speciale bicicletta doppia,  era diventato personaggio. E sapere che proprio lei chiedeva a un’Italia spesso distratta di eliminare ostacoli che impediscono a una carrozzina di salire su un marciapiede o di entrare in un pubblico esercizio o di superare la barriera architettonica di una scala, davanti a un museo, a una chiesa, a un cinematografo, questa miscela di emozioni forti ha bloccato per un momento una città, ha lanciato un bip subito captato e amplificato dai radar dei social.

Di che cosa soffre Marzia? A questa domanda la scienza non è mai riuscita a dare risposte certe. Le cartelle cliniche dicono che è affetta dalla sindrome della tripla X, un’anomalia dei cromosomi sessuali della femmina, un caso ogni mille nascite. L’incidenza del ritardo mentale è solo leggermente superiore alla media e non è distinguibile a occhio nudo. Questo dicono i testi. Ma i testi non dicono quello che abbiamo visto da vicino seguendo Marzia nel suo “Giro dei due mari”. E per capire bisogna leggere le parole di una bella canzone di Alessandra Amoroso: “Comunque andare, quando ti senti morire/per non restare a far niente aspettando la fine/Comunque andare perché ferma non puoi stare”. E’ andata Marzia. Ferma non resterà mai. E’ andata partendo dalla chiesa di Castanea, benedetta dal parroco, salutata dai compaesani commossi che quella mattina di giugno avevano disdetto tutti gli impegni. Erano tutti in piazza a sventolare fazzoletti e bandiere: forza dolcissima ragazza, vai.

Dopo l’attraversamento di Messina, c’è stata tirata entusiasmante lungo la Statale 14 che costeggia villaggi affacciati sul mare, ma con un entroterra da mezza collina: Itala, Nizza di Sicilia, Roccalumera, Letojanni, Taormina. E’ la strada della Dolce Vita. Ci scorrazzavano i “cumenda” che qui cercavano più il divertimento che il teatro greco e si stupivano di vedere la lava dell’Etna lambire la costa, come se la maledizione del fuoco si fosse fermata solo davanti all’acqua.

Sembra un percorso piatto non lo è per niente: si viaggia con rapporti agili perché le discese si alternano a salitelle spacca gambe. Non siamo soli: la notizia dell’avventura di Marzia si è diffusa in un baleno, la carovana ha un servizio d’ordine eccellente, sull’ammiraglia il direttore sportivo Giovanni, personaggio metà Celentano, metà Buzzanca, si sbraccia come tarantolato precedendo i ciclisti tra i quali ci sono i giovani della polisportiva di Castanea, qualcuno autentica promessa delle due ruote. Un vigile ha avvertito che il parroco di Itala ci vuole offrire un ristoro nel piazzale della chiesa. Quando entriamo nel paese c’è un’auto blu che ci prende in consegna. Più avanti un’altra sosta perché un sindaco vuole conoscere Marzia, esprimere la solidarietà dei propri concittadini. Lei lo abbraccia e gli consegna il simbolo di questa avventura: è un piccolo rinoceronte in cuoio disegnato e costruito da papà Gianni, il simbolo delle forza con la quale si possono abbattere le barriere mentali. Che sono più resistenti di quelle materiali.

Di nuovo in sella, comincia il tratto più duro. Dopo Giardini Naxos, la spiaggia di Taormina che se ne sta lassù come una principessa, a cavallo di una collina, si sale. Curve e tornanti, pendenza prima dolce, poi aspra, quasi mille metri di dislivello considerando che si parte dal mare. Qui il gruppo si sgrana. Marzia protesta se qualcuno supera lei e suo padre sul tandem. Basta un suo grido e il fuggitivo che s’è beccato il cartellino giallo dell’ammonizione rientra nei ranghi. Il paesaggio è fitto di ulivi, fichidindia, cespugli di ginestre. Sono i colori di questa Sicilia la cui bellezza struggente è inversamente proporzionale al degrado cui, in alcuni punti, l’uomo ha dato il peggio di sé, costruendo case nel letto di torrenti, devastando foreste con incendi appiccati per interesse. L’interesse a distruggere.

Ci fermiamo a Francavilla. Pernottiamo lì. La prima tappa è stato una sorta di gran premio della montagna come si addice a una corsa vera. L’alba del secondo giorno non promette nulla di buono. E’ sicuro che salendo verso Novara di Sicilia, un presepe medievale sormontato da una chiesa barocca, ci beccheremo la pioggia. Mano alle mantelline. Abbiamo il vento a sfavore che scende da Sella Mandrazzi, 1125 metri, il crinale tra due mari superbi. Dobbiamo arrivare lassù e più pedaliamo, più il cielo si chiude stritolato da nuvoloni neri. Acqua a catinelle. Non importa. La carovana va. I pensieri volano. Le riflessioni si moltiplicano: in fondo la disabilità è un’arte, un modo ingegnoso di vivere.

Sella Mandrazzi è un altopiano dal quale sua altezza l’Etna pare si possa toccare con le mani. Le ginestre regalano scorci di paesaggio che solo la Sicilia sa offrire al viandante. Non piove più. Il sole ha squarciato le nubi e illuminato il lungo corteo di ciclisti. Marzia è felice, chi la segue con quella bandierina issata sulla parte posteriore della sua bicicletta speciale prova a immedesimarsi in un padre che ha realizzato il suo sogno. Comincia la discesa verso la statale 113, la via che collegava Messina a Palermo prima della faticosa costruzione dell’autostrada. Un altro difetto di questo strano Paese: impiegare anni per completare un’opera pubblica, spendendo il doppio, il triplo, pagando un dazio a quel mostro vorace chiamato familiarmente mafia. Ci fermiamo a Tindari, dove sorge il santuario della Madonna Nera. C’è una trattoria, si chiama “Pane e vino”: è un emporio delle migliori specialità gastronomiche della Sicilia. Cena e pernottamento. Ormai è fatta. Il terzo giorno, percorrendo gli ultimi settanta chilometri, è un problema accontentare tutte le comunità che vogliono offrirci un ristoro. Un rinoceronte a tutti i sindaci incontrati, un diluvio di fotografie sotto striscioni sui quali campeggia una scritta: benvenuta Marzia, ti vogliamo bene. Nella folla di tifosi tante persone in carrozzina: sono lì non per dare coraggio alla ragazza di Castanea, ma per ricavarne. Lei ha messo a punto un modello da imitare. E’ festoso il ritorno al punto di partenza. Ed è bello pensare che Gianni ha costruito il suo capolavoro di solidarietà grazie agli amici della cicloturistica pronti a sostenerlo senza ostentare boria, a sua moglie Pina, donna di ferro, a sua sorella Lucia, persona dolcissima. Centosettanta chilometri in bicicletta e qualcosa, dal giugno del 2016, è cambiato per sempre.

Pensierino della sera: cara Marzia, il mio migliore amico è un compagno di scuola poliomielitico da quando era un bimbo, tetraplegico a 55 anni per  un ictus che l’ha inchiodato a una sedia a rotelle. Quando sono depresso lo vado a trovare. Ha il potere di massaggiarmi l’anima, lui che muove solo un dito col quale maneggia il computer come fosse Bill Gates. Adesso, dopo aver pedalato con te, ho scoperto che questo potere ce l’hai anche tu. Grazie

Gianni Spartà